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Andrea Cresti / Una "levatrice" per il Teatro Povero di Monticchiello.


"Perché tutte le scelte che si fanno nella costruzione dello spettacolo, io parlo della mia esperienza, naturalmente poi ognuno c'ha la propria, derivano dalle suggestioni che si coglie nel, diciamo, nel corso dello sviluppo della creatura che poi arriva a conclusione. Quindi è un parto lunghissimo, travagliato, non è un parto fatto con il forcipe, è un parto naturale: diciamo che sono io una levatrice."

Intervista del 13 Agosto 2014

Andrea Cresto è regista e drammaturgo del Teatro Povero di Monticchiello


D: Bene, Andrea. Lo scopo dell'intervista è capire bene la metodologia, quindi capire come nasce un autodramma, ma tu sentiti libero di spaziare e aggiungere ciò che vuoi.

R: No, no, dimmi tu, segui il percorso che ti è necessario, ci mancherebbe, sei tu che...


D: Iniziamo con un prima domanda: cosa è il Teatro Povero di Monticchiello? Naturalmente dal tuo punto di vista.

R: Dal mio punto di vista, e non credo soltanto il mio, è un'occasione di consentire a un piccolo piccolissimo borgo di esprimere il proprio punto di vista, attraverso uno strumento come il teatro. Il proprio punto di vista che riguarda intanto se stesso e i propri problemi, che evidentemente ci sono e sono comuni, ma poi i problemi che si allargano ad una comunità più ampia, che può essere il Paese in genere, parlo del Paese Italia; e questo oggetto è un oggetto estremamente delicato, estremamente complesso, fortemente espressivo e assolutamente incapace per sua natura di essere stabile.


D: Quindi lo vedi completamente dinamico?

R: Lo vedo dinamico e lo vedo in una continua...in un crinale di continua autodistruzione e questo per sua natura, come la natura umana in fondo, perché non c'è niente di definitivo. Lo pensiamo noi, ma poi non è così perché a un certo punto uno, per una qualche ragione, inciampa da qualche parte e si ferma.


D: Lo vedi in distruzione non in crescita quindi?

R: Ma secondo me il concetto di distruzione è un concetto di crescita, è un concetto di rigenerazione, non è un fatto negativo, assolutamente, è un fatto come la vita: la vita nostra, la vita di ognuno di noi, è ovviamente orientata verso la fine, non è orientata verso la nascita, perché da quando noi iniziamo... - questa è una banalità, diciamo, anche retorica, voglio dire , perché se entra qualcuno e mi dice: «No, non è vero, è vero il contrario», allora io gli dico: « Sei un genio!Dimostramelo!». - Quindi, dico io, ogni cosa che nasce si orienta verso la propria fine, per una ragione o per un'altra. È chiaro che nelle fasi di trasformazione questa fine si rimandi. Si rimandi, perché? Perché a differenza della vita individuale una creatura di questo genere, come tutte le altre creature sono, è la composizione di realtà differenti dal punto di vista umano, perché magari subentrano altre persone, diverse, che magari distruggono la creatura precedente e ne costruiscono un'altra.Insomma, ecco, io la vedo così. Ed è una creatura assolutamente importante per un piccolo borgo, perché poteva essere un'altra cosa, una sagra, poteva essere un'organizzazione sportiva, ma che però non aveva l'intensità e la propositività che ha una manifestazione di tipo artistico, questo no, con tutti i lati negativi che contiene.


D: E tu come hai iniziato?

R: Ma io ho iniziato per caso come tutti noi, 50 anni fa. Nel '65 pensammo che dovevamo in qualche modo cercare di capire qual'era il destino di questo paese, dal momento che, in quel periodo storico lì, si stava consumando la conclusione della condizione della mezzadria. Questo per motivi storici, per motivi politici, per motivi umani, per motivi economico-finanziari, per i rivolgimenti che capitano della storia di un Paese, non parlo di Monticchiello ora, parlo del Paese Italia. Perché la mezzadria finì a cavallo tra gli anni '50 e '60, con le ultime frange nei primi anni del '60, in quel momento, tutti i borghi...- chi aveva una caratterizzazione, un carattere, una identità di carattere agricolo - erano destinati a scomparire, perché prima della scomparsa del borgo scompariva il tessuto vitale del borgo e cioè scompariva tutto l'artigianato legato alla condizione della mezzadria. Alcuni borghi si sono trasformati, diciamo così, in borghi ad orientamento turistico; perché quella non dico che fosse la scelta più facile, ma dato le bellezze che ci sono, comunque, nel paesaggio nell'ambiente eccetera. Con un grosso rischio: quello di diventare dei supermercati di carattere turistico. Ne vedo tanti dove si ha la percezione degli odori e non più la percezione della visione, per cui si vede il turista che arriva e, più che guardare, annusa, e annusando coglie i punti di riferimento, infischiandosene se a destra e sinistra ci sono bellezze storiche o altro. Questo purtroppo è un decadimento, ma non è colpa di nessuno, è la logica: cioè non dico questo per incolpare qualcuno di questo discorso, però mi viene un po' da ridere quando vedo - mi viene da ridere in senso ironico - quando vedo in giro molte di queste persone che girano con quel iPod, iPad, con quell'aggeggio che tengono in mano, e guardano attraverso il vetro quello che, se lo spostano, vedono dal vivo. Ora io posso anche capire da un punto di vista - siccome poi dipingo - posso anche capire che l’incorniciatura da, come del resto la macchina fotografica, una inquadratura; se quella è la ragione, allora sono d’accordo con loro, se è invece solo un'esibizione, allora non son più d’accordo, ma questo non lo so, non te lo so dire.


D: E tu come definiresti il tuo ruolo oggi?

R: Ma il mio ruolo è abbastanza chiaro. Ho il compito di costruire lo spettacolo, fin dalla scrittura e quindi dall’invenzione drammaturgica che deriva da un processo complicato, ma che comunque c’è, e che comunque mi da una totale libertà, perché altrimenti non lo farei. Da un'intuizione drammaturgica si arriva fino alla messa in scena completa, e la messinscena completa richiede l’invenzione scenografica, l’invenzione illuminotecnica, il disegno di luci, e poi comunque la regia, e poi tutto quello che consegue, quindi una creatura complessa come poi sono tutte le creature del teatro. C’è sempre uno scrittore, un regista, degli attori, uno scenografo, un costumista, capisci. Diciamo che è ...la parola...qualcuno potrebbe dire “factotum” che è una parola che odio. La odio profondamente perché è una semplificazione verbale che non restituisce dignità a niente, perché il “factotum” me lo immagino, se dovessi metterlo in scena, come una formica impazzita che va da tutte le parti e mette le zampe dappertutto e dice tutto, ed invece non è così. Perché tutte le scelte che si fanno nella costruzione dello spettacolo - io parlo della mia esperienza, naturalmente poi ognuno c'ha la propria - derivano dalle suggestioni che si coglie nel, diciamo, nel corso dello sviluppo della creatura che poi arriva a conclusione. Quindi è un parto lunghissimo, travagliato, non è un parto fatto con il forcipe, è un parto naturale: diciamo che sono io una levatrice.


D: Non essere di Monticchiello renderebbe questo ruolo di levatrice impossibile?

D: Ma non lo so, non lo so.....


D: Intendo non vivere qui, non conoscere le persone?

D: Sì, allora. Io credo che colui o colei o anche coloro, se fosse una creatura multipla, che dovessero assumere questo ruolo, io credo che sarebbe perfettamente fattibile la cosa, a condizione che assumessero questo ruolo non per emergere o per far emergere la propria persona, ma per comprendere prima di tutto l’esperienza e il significato dell’esperienza. E poi, certo, fare un lavoro professionale, perché non è detto che questo non debba accadere, o non potrebbe accadere, o non sarebbe potuto accadere. Vivere qui, e quindi essere parte della vita del borgo, come concittadino degli altri, è un elemento che facilita da una parte ma complica dall’altra: perché la persona estranea, tra virgolette, nel senso che dicevi un attimo fa tu, è più libera. Il ruolo, invece, di chi sta dentro è più complesso. Perché? Perché nel momento delle scelte, per esempio, deve per forza tracciare una strada che può escludere qualcosa o qualcuno, io non l’ho mai fatto, ma potrei doverlo fare. E qui la complicazione diventa più grossa, perché nel momento in cui decidi che non lo vuoi fare, perché secondo te non è giusto farlo, devi mettere in piedi un ragionamento che amplii le possibilità, diciamo, di partecipazione, anche a rischio dei risultati. Preferisco un risultato qualitativamente inferiore, ma che comprenda più persone disponibili o tutte le persone disponibili, piuttosto che un risultato eccellente, ma che però ha escluso x, y o z o altro o, ecco, alcune idee.



D: Spesso si distingue tra processo e prodotto, quindi nella tua prospettiva il processo è più importante del prodotto?

R: Certo, certo, questo lo condivido in pieno e lo vivo.


D: Come sai Andrea io sono di Pienza, sono anche io figlia di questo territorio, i miei nonni, mia madre, dicevano: «Si va alla recita a Monticchiello». Poi la recita è diventata “autodramma”. Come accade che una “recita” diventa “autodramma”? Come hai detto tu il Teatro Povero di Monticchiello ha tutti quegli elementi, attori, scenografie, luci che lo rendono uno spettacolo di teatro...

R: Ce li deve avere.


D: E dunque ce li ha. Ma ha, poi, qualche altra cosa che ha fatto sì che Mario Guidotti[1] lo definisse “autodramma”.

R: Guidotti ebbe un'intuizione felicissima e io, seppure non ci sia più, lo ringrazio ancora dell’intuizione che ebbe. Un’intuizione che peraltro poteva essere, comunque, di chiunque altro che avesse quella sensibilità e avesse colto quel momento. Lui si accorse che...perché la partecipazione di Guidotti nacque nel 1969 quando noi capimmo, dopo i primi due spettacoli, che erano due spettacoli in costume, comunque che ragionavano sulla Storia del Monticchiello - il 1553 l’assedio di Carlo V e un evento accaduto nel 1300 di Giovanni da Monticchiello che era un gesuato - ma comunque avevano due tematiche fortissime: il primo aveva il tema del concetto della libertà, il secondo aveva il concetto della povertà, diciamo, non dico francescana, perché i gesuati non erano francescani, ma comunque avevano il tema della questione sociale, e quindi il rifiuto della ricchezza e diciamo in qualche modo la ricerca di una condivisione di una ricchezza con chiunque avesse questa necessità. Temi molto difficili, anche utopici, ma comunque l’utopia serve ad arrivare un po' più in su di quanto non sia l’abitudine quotidiana.

E noi inciampammo nel terzo anno: inciampammo nel senso che cercavamo di capire qual’era l’ulteriore passo da fare, perché capimmo che era la storia del borgo ad essere quella che doveva essere oggetto da rappresentare e da proporre al pubblico. E capimmo che il passo immediatamente successivo era quello di un'attualità, diciamo, di una storia molto vicina che era quella del ’44:[2] erano pochi anni, ’44, ’54, ’64, erano 23, 24, 25 anni che era successa la storia della battaglia partigiana e quindi con il problema - il problema, per modo di dire – insomma, la caduta del fascismo e tutto quello che lo riguardava, e qui era ancora una ferita aperta, nel concetto di guerra civile. Per cui io ricordo che le prove le facevamo con alcuni gruppetti di personaggi, che avevano conosciuto la storia e che stavano dalla parte del fascismo di allora, a vedere se quello che facevamo in piazza era vero oppure era usato politicamente per propaganda politica, diciamo. E questo non era. Guidotti fu, infatti, molto equilibrato anche perché coloro che avevano partecipato a questo, a partire da Walter Ottaviani,[3]che poi era pientino,[4] ma non solo lui, il fratello, e poi anche altri, erano ancora vivi tutti quanti, quindi, davano testimonianze dirette. Noi, dicevo, inciampammo perché non sapevamo chi in quel momento potesse scrivere questo testo, prima che poi comparisse Guidotti, che fra l’altro aveva già visto i precedenti due spettacoli. Noi scrivemmo a Montanelli[5] che stava scrivendo la storia d’Italia, e sia Montanelli che poi, dopo Montanelli che ci disse che l’avrebbe fatto volentieri ma l’anno successivo, e noi non potevamo aspettare un anno perché avevamo la scadenza di Luglio[6] già da allora, e allora scrivemmo a Cassola[7] che aveva scritto “La ragazza di Bube”, poi stava qui a Grosseto, comunque era originario, era vicino. Anche lui disse che lo avrebbe fatto volentieri, però c'aveva degli impegni con gli editori, doveva finire un libro, per cui disse: «Aspettate qualche mese», e noi non potevamo aspettare.

Guidotti - non mi ricordo chi contattò Guidotti, forse Aldo Nisi[8] che era maestro, a quel tempo, elementare - e comunque Guidotti, che poi fra l’altro conosceva tutti quelli che erano stati i partigiani di allora, dai fratelli Ottaviani, da Giulio Bolzini, dall’architetto Tiezzi - che appunto ora sta a Firenze, è ancora vivo, l’unico, credo, l’ultimo rimasto - . E a Guidotti, che conosceva la vicenda di Monticchiello, perché aveva visto i due spettacoli, la cosa gli piacque, e scrisse “Quel 6 Aprile del ’44”. Ma non aveva ancora pensato al concetto di autodramma, questo venne un anno dopo.

«Che facciamo?», e lui disse: «Facciamo un’analisi della realtà, scriviamo...», e scrisse “Noi di Monticchiello”. “ Noi di Monticchiello”, come una specie di riflessione sulla realtà del momento, di quel momento di rottura di quelle condizioni di cui parlavo prima; tant’è vero che questo “Noi di Monticchiello” - allora gli spettacoli erano tre atti, praticamente era soltanto il prim’atto; anzi il terzo atto era realmente “Noi di Monticchiello” - parlava della realtà e ognuno di noi parlava col proprio nome e cognome, perché il primo e il secondo atto parlavano delle...,erano dei flash sui due spettacoli fatti precedentemente. Questa storia, questo fatto di parlare in prima persona, gli fece venire in mente questo concetto di auto-rappresentazione. Ma la parola autodramma gliela suggerì Strehler.[9] Allora, la parola autodramma non era nel linguaggio del Teatro italiano, ma c'era lo psicodramma di Moreno,[10] che è vero che è una rappresentazione di carattere teatrale, ma all'interno di una terapia di carattere psicologico, dove c'è l'auto-rappresentazione quando uno dei pazienti si identifica in un soggetto recitante. Quindi io posso fare l'albero, fare la pietra, si può fare "vattelappesca", però, è profondamente diverso per diverse ragioni: prima di tutto perché non c'è un pubblico, secondariamente perché è una terapia dichiarata a partire dalla terapia, e non c'è un palcoscenico, anche se c'è un palcoscenico.Perchè coloro che rappresentano lo psicodramma sono contemporaneamente attori e spettatori di se stessi, quindi è una cosa completamente diversa; però, la sonorità della parola è molto simile. Allora, autodramma è proprio la auto-rappresentazione di se stessi, ma di fronte ad un pubblico. E questo fu un esperimento che attecchì, anche se lì per lì la parola, era una parola un po' ostica, perché questa storia..., anche perché noi siamo abituati a concepire il concetto di dramma in qualcosa di drammatico, tragico. Ma il concetto di dramma intanto non è tragico, non è tragicomico, ma è solamente drammatico: il concetto di drammatico c'ha la stessa radice di drammaturgia, per cui siamo nel momento della scrittura della propria vita di fronte ad un pubblico e quindi dell'auto-rappresentazione. Allora la recita, che è il termine più congruo, più giusto e più, diciamo, anche nobile, con cui si esprime qualcuno che si mette su un palcoscenico diventò immediatamente autodramma. Tant'è vero che i francesi dicono giocare, "jouer", non c'è la parola: sì, spettacolo c'è, però il concetto è questo. Ma anche in inglese "play" è giocare e recitare, è quindi noi giochiamo su un palcoscenico, e quindi è così, ecco.


D: Altra domanda: come nasce l’auto-dramma del Teatro Povero di Monticchiello? Come riesce una comunità con i suoi molteplici punti di vista a farli confluire in un opera unica e in sé coerente?

R: Ma il discorso è piuttosto lungo, perché poi, nel corso di quarantotto anni, quarantanove, ha subito varie trasformazioni, pur mantenendosi sé stesso. I primi due anni i due testi furono scritti da due sacerdoti, il prima era Don Marcello Del Balio che scriveva i Bruscelli[11] di Montepulciano: però già da lì capimmo che non andavamo d'accordo con l'autore, perché mi ricordo che alla lettura di questo testo, che fra l'altro era ripreso da un racconto che il babbo della mia nonna - mia nonna era la matrigna di mio babbo, mio babbo era rimasto orfano a 4 anni e mio nonno s'era risposato con questa signora, il cui genitore scriveva degli articoli su dei giornali - aveva scritto una storia che si chiamava "Maria Mangiavacchi, l'eroina di Monticchiello" e l'aveva ripresa da un racconto semi-vero, diciamo così, narrato, una narrazione: vero nel concetto storico e romanzato nei personaggi e l'aveva pubblicato sulla..., non la Domenica del Corriere, ce n'era un altro di settimanali, che si chiamava?....Insomma questo articolo ancora c'era e da lì riprendendo da quel racconto venne fuori questo episodio di questo assedio vero, documentato da Sozzini nel volume "I castelli del Val d'Orcia e la Repubblica di Siena"[12] - 1553, c'è il racconto dell'assedio di Carlo V. E questo racconto fu romanzato da questo signore, De Lorenzo si chiamava lui, e da questo racconto romanzato venne fuori il testo che Don Marcello scrisse. Quello che non ci piacque erano alcuni passaggi, li riscrivemmo e da lì nacque l'idea che probabilmente bisognava rivederli i testi teatrali. Il secondo anno lo scrisse Don Vasco Neri, che era l'allora parroco qui di Monticchiello, un sacerdote molto colto tra l'altro, molto - l'aggettivo non gli rende giustizia - ma molto democratico: diciamo che era sacerdote, senza la piaggeria del sacerdozio, del clericalismo, di niente, assolutamente, era puro in questo senso e quindi era libero di pensare come voleva, seppure fosse un sacerdote. E scrisse il testo: anche lì, era più facile perché lo facevamo e lo faceva interrogando continuamente le persone, cioè noi, quindi lo rivedevamo anche insieme. Il terzo anno invece nacque questo problema di capire chi poteva scrivere un argomento del genere perché non era adatto un sacerdote per scriverlo quell'argomento. Perché non era adatto? Perché il 6 Aprile del '44 o meglio il 7 - il 6 Aprile il giorno della battaglia, il 7 fu quello del rischio della carneficina - era un venerdì santo, quindi il sacerdote avrebbe potuto virare involontariamente verso una spiritualità che forse c'entrava, o forse no, non lo sappiamo, per cui ci voleva una mano laica. Ecco perché cercammo Montanelli per alcune ragioni e Cassola per altre, e non essendo nessuna delle due disponibili, di queste mani, Guidotti fu quello che prendemmo e che voleva. Lo scrisse lui, lo rivedemmo anche questa volta: lo rivedemmo perché alcuni dei partigiani di quel gruppo erano di qui del paese e quindi sapevano.



D: Ma le persone del gruppo che rivedevano il testo, venivano invitate oppure vi ritrovavate così spontaneamente?

R: Ma era una cosa naturale, naturalissima, capito, non c'erano sempre Ottaviani Enzo o Walter nelle discussioni, ma sapevano che c'era questa cosa e partecipavano, e avevano parlato con Guidotti alcune volte. Poi venivano continuamente qui, tutti loro, particolarmente Walter che aveva guidato il gruppo dei partigiani, perché lui era un ufficiale, era un tenente dell'esercito regolare italiano. E quindi....


D: ....passavano attraverso relazioni naturali..?

R: Sì, assolutamente naturali, anche perché questa abitudine al parlare in comune, in assemblea - che è una parola un po' abusata ma insomma - in assemblea, era una abitudine molto naturale anche per un'altra ragione. Per ragioni politiche, che stavano a monte di questo discorso, ma che non impattavano sulla vicenda del Teatro, se non interiormente nelle persone. Perché il 90-95% degli abitanti contadini e paesani erano tutti iscritti al Partito Comunista, o votavano il Partito Comunista o comunque al Partito Socialista Italiano, e cioè quelli che erano gli artigiani - perché gli artigiani erano prevalentemente socialisti - e quindi, ecco, dico, c'era un'abitudine, questa abitudine. Perché allora il Partito Comunista era fortemente organizzato dal punto di vista degli incontri: c'era l'UDI, l'Unione Donne Italiane, che erano attivissime in quel momento lì, c'erano le Cellule[13] che riunivano gli iscritti per parlare dei problemi; che poi ci fossero coloro che in qualche maniera tiravano le fila di questi discorsi, quello che vuol dire, va bene che c'erano, quella è una vicenda comune a tutte le organizzazioni politiche, e quindi era naturale che questo accadesse. E insomma incominciammo da lì. Però gli scritti di Guidotti che ci hanno accompagnato fino al 1980 erano continuamente rivisti, ripensati, ridiscussi, riaggiustati da noi. A me spettava il compito di fare da tramite, tra il Guidotti e le Assemblee che facevamo nella lettura di questa cosa. Allora c'era Arnaldo Della Giovampaola[14], che avrai conosciuto suppongo, lui faceva le regie degli spettacoli, ma comunque anche lui partecipava alle assemblee e ne discutevamo; poi, con Guidotti, a me spettava il compito - a me in particolare, ma anche ad Arnaldo, anche a Don Vasco, anche ad Aldo Nisi, anche ad altri, con cui ci rincontravamo - di motivare le modifiche di questi testi, e lui apparentemente....non so. Ecco qui c'è un'ambiguità, secondo me. L'ambiguità può avere diversi orientamenti. Secondo me lì, questa ambiguità ce ne aveva due, che però erano veri tutti e due, quindi erano due metà, due semi-verità che componevano una verità unitaria, ma sempre ambigua, e cioè qual'era: Guidotti aveva capito che stava nascendo qualcosa di differente dall'abitudine dello scrittore: «Io scrivo, quello che mi viene in mente, te lo do, guai se lo tocchi perché il testo è questo qua». E quindi avendolo capito accettava di buon grado questa modifica continua anche in corso d'opera: io le battute me le scrivevo da me,ad esempio, quando facevamo il terzo atto di quei tre atti, che però gli sottoponevo. E lui faceva finta di arrabbiarsi, perché giocava il ruolo, ma sapeva bene che se lui voleva che quella creatura, che lui colse, avesse successo, voglio dire, nel panorama del Teatro italiano, doveva accettare quel tipo di scontro e d'incontro, soprattutto se capiva che quella creatura nel corso della modifica ne beneficiava. Perché noi la sfrondavamo da tutto quello che secondo noi era retorica, perché c'era e lui accettava questo discorso. Fino al 1980, quando Franco Rossi, che è l'attuale - che ha collaborato con noi per molti anni -, che è l'attuale Assessore alla cultura del Comune di Montepulciano, non so se lo conosci, ecco lui disse nel 1980, al momento in cui dicemmo: «Quest'anno che facciamo dopo il decennio di Guidotti?», Franco disse: «Ma facciamo uno spettacolo sulla piazza che ci ha accolto per dodici anni, per tredici...» - quanti erano? Quattordici spettacoli -. E la cosa piacque a tutti. Però venne anche fuori il discorso: «Sì ma se facciamo un discorso sulla piazza lo dobbiamo scrivere da noi, perché Guidotti sì è vero che c'ha accompagnato fin qui ed è stato un compagno di viaggio ma non ha vissuto le serate in piazza ». E il problema era: «Bisogna che Guidotti capisca che quest'anno non lo può scrivere lui completamente, chi ci va?». Mi dissero: «Vacci te!», forse perché io ero il tramite, vedrai. Allora io gli dissi: «Mario noi facciamo lo spettacolo sulla piazza», «Bell'idea, mi piace....», «Però lo dobbiamo scrivere da noi», «Eh sì certo come no? ». Dopo due giorni mi arrivò una lettera feroce dove... - credo di averla ancora, una a me e una a Don Vasco - dove ci diceva di tutto e di più. E io la riportai in assemblea e tutti mi dissero: «Ma io mica c'ho litigato con Guidotti, c'hai litigato te!», «Io? Voi mi c'avete mandato non è che io...io non ci volevo anda', ma mi c'avete mandato e ci sono andato», per cui finì lì il discorso. Per cui la delega in quel momento era suicida o meglio omicida.



D: In pratica ti hanno sacrificato: capro espiatorio.

R: Capro espiatorio. Va bene, allora, io sono il capro espiatorio e mi diverto: lo scrissi interamente.Naturalmente lo scrissi interamente, e le scalette le diffusi dappertutto, prima ne feci accenno, la condividemmo, poi ne misi una al Circolo Enal e Arci....


D: La condividesti con chi?

R: Con tutti, con l'Assemblea. Man a mano che scrivevo la scaletta di una scena la mettevo in pubblico, dappertutto, al bar, lì, al negozio di generi alimentari, dal parrucchiere in maniera che chiunque la volesse leggere la leggeva. Ma poi facevamo riunioni, indubbiamente.


D: Riunioni a cui partecipava...?

R: Chiunque volesse venire naturalmente. E la difficoltà di questa forma assembleare che dura tutt'ora, è che non essendo riunioni di partito, né di nient'altro, né con gente tesserata, una volta ti ci viene Tizio, un'altra volta Tizio non può perché c'ha un impegno e viene Caio che non conosce quello che ha detto Tizio e quindi bisogna riassumere a Caio quello che ha detto Tizio e poi a Tizio bisogna dire che abbiamo riassunto a Caio, ma anche quello che ha detto Caio: ora io semplifico potrei continuare complicando....tanta altra gente, ecco.

E quindi, ecco, la difficoltà è propria quella, il discorso che tu dicevi, come si fa a far confluire in un'idea comune. La confluenza è difficile a condizione che non si faccia, che si stia molto attenti a quello che viene detto, che non si dimentichi assolutamente niente e che tutti gli elementi che fanno parte di un parlato comune vengano riconosciuti presenti: ma non le parole, ma non le idee ma l'intimo, il sentimento intimo delle persone. E' difficile descrivere questo, perché io non so quello che tu provi in questo momento mentre io parlo, ma se dovessimo fare uno spettacolo e io ti guardo attentamente e ascolto come sorridi, come ridi, come invece stai seria e trasferisco su uno scritto quello che a me sembrano siano le tue impressioni, il discorso, se è poi uno spettacolo, diventa condiviso, se io sono stato attento a quello che tu mi esprimi nella comunicazione, nel momento in cui noi siamo in un rapporto di relazione, no? E questo è l'elemento forte della condivisione in una struttura drammaturgica complicatissima, in questo senso, anche perché c'è un grande rischio che bisogna sempre cercare di allontanare. C'è il rischio che, nel corso del tempo, il fatto che quello che fai, essendo condiviso e avendo a conti fatti la risposta di un risultato positivo, c'è il rischio che la delega diventi cieca: «Fa', tanto va bene ». E questo è un grande rischio perché allora succede che la capacità creativa, secondo me, si fossilizza perché tanto funziona: il pericolo della ripetitività è la via più facile per andare avanti, specie dopo un lunghissimo periodo di questo genere; e anche chi ascolta non è più capace di esprimere la propria razionalità, la propria capacità critica e autocritica. Oppure l'altro pericolo che compone la natura pericolosa è l'eccesso di ipercritica, perché pur di partecipare io divento ipercritico, per capire se la mia partecipazione ha un senso oppure no. Non ti so più rispondere da qui in poi, perché è possibile tutto.


D: Ma l'idea? Ad esempio quest'anno avete fatto "Tempo veleniferi"[15]. L'idea da dove viene? Viene fatta l'assemblea, come hai detto....

R: Più di una, dove vengono discusse tante cose e chiunque parla di quello che vuole, magari della partita di calcio oppure si va a finire a parlare del vattelappesca, non lo so.



D: Quindi viene fatta una riunione, le persone si ritrovano e si inizia a parlare?

R: Di qualsiasi cosa. Io non parlo, ascolto. La prima, la seconda, la terza, ascolto e basta. E cerco di capire. Adesso ti sto descrivendo un percorso che non è così lineare come lo descrivo, ma l'ascolto è la condizione fondamentale, perché se dovessi io - ma chiunque altro avesse poi il compito di fare questa operazione - parlare, già blocchi tutto quello che è la libertà di pensiero degli altri, e quindi è bene lasciarli liberi. Però nel corso di queste chiacchiere, che definisco volentieri chiacchiere, devi cominciare a capire qual'è l'elemento comune, se c'è un elemento comune e c'è un elemento comune, un malessere comune, un desiderio comune, un qualcosa che gira nelle teste di tutti, magari con espressioni diverse perché ognuno si esprime in un modo piuttosto che in un altro, perché ognuno ti dice una cosa mentre parla di un'altra cosa. Però sotto c'è, lo devi intuire, quel pensiero che motiva quel discorso, che magari non è il discorso che fa un altro. Ecco ti faccio un esempio: io posso dire a qualcuno che è scemo sorridendo, un altro gli può dire che è scemo aggredendolo, un altro può dire che è scemo raccontando: «Sai che ha detto l'altro giorno?». Quindi ognuna di queste non definizioni, attraverso la parola, descrivono un qualcosa. Si tratta di capire che cos'è. Quest'anno, fin dalla prima riunione, vennero fuori alcuni elementi, e cioè qualcuno disse: «Mah, sono settantanni che è accaduta la storia del '44 quindi mi piacerebbe - lo disse apertamente - mi piacerebbe che ci fosse, che si facesse una rievocazione - la parola già mi urta - una rievocazione di quel fatto», perché rievocare non è riflettere su, è soltanto..., vabbé, ma questo è un pensiero mio. Altri, invece, dissero: «Sì, però, non possiamo dimenticarci che siamo in una condizione, diciamo, di vita disastrosa, pericolosa, no?»; altri ancora dissero: «Sentite io ne ho abbastanza di questi tempi così difficili, di continuare a sentire quest'angoscia che ti assilla». Questi tre erano gli elementi fondamentali. Che poi nello spettacolo ci sono tutti e tre: comincia con una mitraglia e finisce con una mitraglia, ma la mitraglia diventa una metafora. Prima è un oggetto concreto che offende e che uccide direttamente e immediatamente. Alla fine ricompare, ma ricompare come metafora, e quindi uccide sì, ma in un altro modo. Al centro c'è tutto quello che voleva esserci e cioè: da una parte - e la difficoltà stava proprio qui - da una parte il piacere del sorridere, dall'altra non dimenticare la situazione attuale. Allora queste due cose si sposavano difficilmente fra di loro. Bisognava tracciare due linee drammaturgiche, che fossero parallele, e che una partisse dalla mitraglia vera per arrivare, poi, a quella metafora e che partisse da una realtà storica attraverso un percorso che attraversasse l'attuale; l'altra, che fosse il piacere di sorridere ,ma che non dimenticasse quello che c'è. E allora la scelta mia è stata quella di scegliere, di prendere, di scrivere un testo sull'oggi che fosse continuamente interrotto da pensieri piacevoli: basta una parola, basta un frammento, basta qualcosa. Ma che contemporaneamente, quando questo qualcosa tira i fili di questi frammenti e diventa una creatura compiuta, e quindi un racconto, fosse continuamente interrotto da alcuni pensieri di quello che è stato l'origine del discorso.

Era una operazione un po' complicata, poteva anche diventare meccanicistica, retorica: così non è stato ma poteva esserlo. Poteva non essere capita: vedo però invece che il pubblico lo capisce e lo accetta. Quindi....qual'era la parte piacevole? Noi avevamo una commedia scritta da Osvaldo Bonari, che era un ex mezzadro, scritta negli anni Settanta: era una commediola molto semplice, che lui aveva scritto perché aveva visto una commediola che avevamo messo in scena, un classico del tetro in vernacolo, "L'acqua cheta"; tanto che chi conosce "L'acqua cheta" riconosce nella commedia di Osvaldo il modello de "L'acqua cheta", perché c'è un babbo, una mamma, due figlie, una silenziosa e timorosa che però fa qualcosa di impensabile, e cioè si fa mettere incinta, e l'altra che sembra chissà poi che sia, che invece rimane fregata, e quindi manco trova il fidanzato. Ora, più o meno questo è il meccanismo: ne "L'acqua cheta" non c'era la ragazza incinta ma comunque un' "acqua cheta" :vuol dire che quella che sembra la più tranquilla, insomma, poi, rovina i ponti[16]. Osvaldo l'aveva scritta, erano tre atti, io l'avevo ridotta in un atto unico, l'avevo riscritta seguendo però il filo logico della sua, per cui a dicembre, misi in scena nel Teatrino[17] quella commedia in un atto unico, provai a fare degli inserti di quel tipo, che poi sono diventati la commedia d'estate. Vidi che funzionava, allora capii che il meccanismo che ti descrivevo un attimo prima, poteva essere preso. Lo proposi, fu accettato e siamo andati in fondo. Questo è come è nata questa..."Tempi veleniferi". Il titolo è venuto da sé perché il "grano velenifero"[18] era quello. Se avessimo messo "tempi avvelenati" sarebbe stato davvero sbagliato, perché non sono i tempi ad essere avvelenati: sono i tempi che contengono un veleno che poi si espande. I tempi avvelenati sono quelli in cui qualcuno li ha avvelenati, ma questo è ancora più profondo, il concetto. 'Ché poi deriva dal latino "velenum", per cui è il tempo che ti avvelena, e ti avvelena nella storia, e ti avvelena nell'oggi, e ti avvelenerà nel domani, ma puoi anche ridere mentre ti avvelena. Mancava un legame diretto fra queste due strutture drammaturgiche, che correvano parallele e si intersecavano continuamente, mancava un legame. Il legame l'ho trovato nella battuta di Paolo,[19] che racconta una cosa che avevo vissuto io da ragazzino. Qui c'era un'osteria che era quella di Arturo Vignai,[20] ed era un'osteria in cui noi ragazzini, fra gli anni '40 e '50, andavamo a giocare a carte o a panforte nel retrobottega; e però, nella bottega - che ora è l'attuale abitazione di Arturo - c'era l'osteria dove vendevano il vino e lì la domenica mattina c'erano questi capoccia:[21] erano sette, otto, cinque, secondo, vestiti in quel modo come dice lui. Stavano intorno a questo grande braciere, era un "focone" - noi si chiamava "focone" - con la brace che veniva messa ogni tanto... E bevevano il vino, la mattina: erano vestiti di nero, con il corpetto nero, con la camicia bianca senza collo, vestiti come lui descrive. Venivano con un panetto di pane sotto il braccio, stavano lì tutto il giorno fino al pomeriggio: chiacchieravano, bevevano continuamente, non è che si ubriacavano però insomma bevevano, e poi fumavano il Toscano. Quindi, io ce l'ho nelle narici l'odore: e sputavano dentro questo braciere e quando sputavano, siccome bevevano e la saliva conteneva il vino che bevevano, ma anche l'odore del sigaro, venivano fuori queste nuvolette di fumo di un odore incredibile, che io me lo ricordo benissimo. Io se dovessi entrare in una osteria ti direi se quella è una osteria vera o se è una ricostruzione ad uso e consumo del turismo. E allora ho fatto raccontare a Paolo quell'episodio, giocando su un'altra storia: siccome lì, in scena, entrano sempre questi personaggi che dicono un pezzetto, delle frasi, che poi noi riconosciamo più avanti. Mancava un legame diretto: allora io ho aggiunto solo una cosa alla realtà della descrizione di quell'episodio che ti raccontavo prima; ho aggiunto una frase: «Qualcuno le scriveva queste storie», perché io, nessuno di loro so se le scriveva, però era possibile. Osvaldo una storia l'aveva scritta, non era quella, ma comunque...E quando Paolo dice l'ultima battuta che dice, a Fabio, che gli dice: «Chiudi gli occhi e pensa alla vita, quella che ti resta e dimmi come stai.» Non gli risponde Fabio, gli risponde la donna che interpreterà la madre nella parte della commedia, e gli risponde: «Male, perché mi fa male», e lui cogliendo l'ambiguità dice: «La vita?», e lei: «No, il dito!». E da questo legame, da questo anello parte la storia. Questo è il racconto della linea drammaturgica di questo spettacolo che poi in fondo ritrova tutta la sua, diciamo, il legame finale quando il fidanzato - no scemo - timido, quando dice: «La chiappo!» e non va a ballare con la ragazza, ma va ballare con l'altra che è l'incarnazione dei 50 anni, che non sono ancora 50, e insomma lì esce tutto l'altro discorso, il ballo e poi il resto.


D: Nel momento in cui trovi questi temi nelle parole delle persone, li prendi e incominci a scrivere la scaletta?

R: Certo, certo...




D: Dopo che viene fissata la scaletta, c'è comunque questo confronto. Cioè nella fase in cui tu scrivi il testo, c'è una assemblea....?

R: Sì certo, certo. Prima dell'assemblea c'è un piccolo gruppo ristretto di chiunque vuole partecipare, ma comunque sei, sette persone.


D: E il gruppo ristretto sono persone che aiutano...?

R:Con cui mi confronto, e che hanno disponibilità e voglia di confrontarsi, di criticare le proposte: io non è che mi lascio influenzare ma diciamo è una seconda fase dell'ascolto.


D: Quindi diciamo l'Assemblea è ampia, possono partecipare tutti, mentre il gruppo ristretto...?

R: Più ristretto perché? Perché ci sono alcune ragioni. Per esempio: una scaletta, quando arriva ad essere una scaletta, almeno per quanto riguarda me, la mia esperienza, è una ventina di cartelle, da quindici a venti; poi io so che venti pagine di scaletta diventano quarantacinque pagine di copione, io so che venti pagine di copione sono un'ora e venti di spettacolo, che oscillano tra un'ora è dieci e un'ora e venti, e quindi i tempi ce li ho in mente, li conosco bene non ho difficoltà. Quindi una scaletta contiene sì quello, la descrizione di quello che può accadere all'inizio durante o dopo, ma contiene anche dei suggerimenti, dei piccoli frammenti di dialogo per far capire il tipo di dialogo che si inserisce, alcuni suggerimenti di carattere scenotecnico o illuminotecnico, scenotecnico in genere, scenografico in particolare, illuminotecnico in specifico, oppure sonoro. Ecco, però, sono tutti suggerimenti che da una parte servono, ma dall'altra complicano: perché da una parte servono a capire lo sviluppo, dall'altra confondono, perché parole, suggerimenti descrittivi di una scenografia mettono in mente una serie di informazioni che nella mia testa sono chiarissime, in chi ascolta no, assolutamente no. Perché non ti ci raccapezzi: però sono suggestioni, e magari nel corso di una settimana, di dieci giorni, di un mese, di quindici giorni, producono delle riflessioni, magari sbagliate, e allora le escludiamo, oppure no, e allora vengono assunte.


D: Dopo tutto questo lavoro di confronto si arriva al testo e dal testo....?

R: Si cominciano le prove...


D: In tutto questo che ruolo ha la narrazione?

R:Secondo me ha un ruolo fondamentale, perché il narrare...Insomma, la narrazione può essere individuale, di un affabulatore, ma può essere anche collettiva nel momento in cui diventa oggetto di palcoscenico, oggetto di teatro, oppure lettura collettiva, insomma è già diverso. Ma la narrazione implica una compartecipazione di due tipi, derivante da un'immedesimazione in quello che narri o derivante da uno straniamento da quello che narri. Qui sono le due scuole di pensiero del teatro, dove da una parte c'è il teatro di narrazione dove c'è l'immedesimazione, e quindi la finzione diventa totale; dall'altra c'è invece il principio di straniamento, che poi è quello il principio, diciamo - anche questo è banale - il principio brechtiano di straniamento per cui ti dico, ti racconto una storia non perché ti voglio suggerire emozioni, ma perché ti voglio invitare a riflettere su quello che vedi: ti descrivo quello che accade, non mi immedesimo in quello che accade. Nello spettacolo attuale, ci sono i due momenti: c'è il momento della narrazione in cui i personaggi si immedesimano, ma c'è quello in cui cambiano le luci, si vedono anche i muri delle case, e quindi la luce diventa fredda, tagliata, bianca totale e i personaggi diventano invece descrittori di una realtà, non si immedesimano in questa, ecco.


D: Da quello che hai detto, la narrazione ha anche un ruolo nella costruzione dello spettacolo: quelle che tu hai chiamato "chiacchiere", sono anch'esse narrazione?

R: Sono le componenti di un fatto narrativo comune, collettivo. Ho detto "chiacchiere": non era un termine dispregiativo, era un termine costruttivo, assolutamente costruttivo. Io quando sento, tante volte sto a occhi chiusi. E mi dicono: «Dormi!». No non dormo, ascolto, perché ascoltando le voci, immagino le fisionomie, anche di chi è venuto una volta solo e questo mi aiuta moltissimo perché, quelle tonalità di voce, quella passione descrittiva diventano veramente componenti narrative fondamentali di un oggetto narrato collettivamente.


D: Dopo la scrittura del testo, c'è la messinscena, c'è la scelta degli attori. Come vengono coinvolti? Come vengono scelti?

R: Allora, la scelta è facile-difficile, nel senso che il numero di persone disponibili è questo, che cambia in più o in meno, ma non è una scelta tra mille persone.


D: Quanti sono? Che numeri ti sei trovato di fronte?

R: Quelli che sono disponibili, quelli adopero.


D: Il contatto è diretto?

R:Io preferisco non farlo direttamente per evitare che la mia richiesta condizioni l'adesione: quest'anno c'era Chiara,[22] che mi ha aiutato moltissimo, che è una ragazza giovane, e quindi gli si può dire di no con facilità, però gli si può dire di sì non condizionati, indipendentemente da quello che può essere il condizionamento delle persone: in questo senso l'aiuto è oggettivo ed è assolutamente determinante. A quel punto io mi trovo a disposizione un certo numero di persone, so che devo lavorare con quello, so che devo scegliere tra quelle persone.


D: Sai già? Te le sei immaginate prima?

R: No. Cioè sì, nella scrittura, non nell'atto della messinscena. Perché nella scrittura posso avere delle immagini concrete e quindi dei caratteri concreti, ma nel momento della messinscena io devo modificare quei caratteri a seconda dell'interprete, perché sennò non funziona il discorso. Allora posso agire per differenza: cioè se immagino che una persona possa interpretare un personaggio che io ritengo sia di un certo tipo e mi trovo di fronte un interprete che è tutt'altro, allora devo giocare su altri registri, agisco per differenza.




D: Quindi continui con il confronto?

R: Continuo con il confronto e con il cambio del testo, anche, il cambio della costruzione del testo mantenendo i concetti, perché quello è fondamentale sennò snaturi tutto, no? Capisci: questo è il discorso che a me preme moltissimo, e questo è il discorso più complicato, ma è anche il discorso più semplice, nel momento in cui loro si riconoscono in quel tipo di personaggio. Io, per esempio, quest'anno, la Signora che parla del gioco del Lotto, è perfetta, lei è la seconda volta che sta sul palcoscenico


D: Dunque, la scrittura continua anche durante la costruzione della messinscena?

R: La parte ad esempio che riguarda quell'inserto, che è l'inserto "E" del testo, che è l'ultimo, dove parlano del gioco delle carte, dell'universo: quella storia lì, io inizialmente nel corso della scrittura lo pensavo serio, non serioso, ma serio e mi sono trovato invece nel corso della messinscena, mi sono trovato a ribaltare completamente l'impianto, diciamo, interpretativo giocando assolutamente su un registro grottesco, perché funzionava, perché c'era lei. E se non c'era lei lo impostavo probabilmente in un altro modo. Tant'è vero che lei non lo aveva capito all'inizio che stava facendo. Lo ha capito nel momento in cui gli ho detto: «Devi essere te stessa, ma non te stessa nel momento in cui te ti esponi parlando con altri: devi essere quella te stessa che si libera, magari davanti allo specchio quando - io non lo voglio sapere se lo fai o meno - ti trucchi e balli, a sessant'anni.» - perché uno che lo fa di fronte agli altri a sessant'anni è un coglione, sembra che sia così e invece no, magari lo facessero tutti in quel momento lì - «Quindi liberati completamente dello scheletro e della maschera che hai addosso, tira fuori l'atra maschera, quella che è la tua: quindi, ogni volta che ognuno di loro dice una parola seria, intervieni con un numero che è quello della smorfia, te lo dico io il numero..». Tanto che appena uno di loro dice: «Strada», lei interviene: «Che fa 15 e 32», allora lì diventa grottesco il meccanismo.


D: Questo dunque non c'era nel testo all'inizio?

R:No, c'è stato nel momento in cui ho capito la strada, perché io ho fatto prima un testo, diciamo, non una bozza del testo, ma non fatto in quel modo: avevo scritto delle cose, ma poi ne ho levate altre, per arrivare all'essenza di quel discorso, sennò non funzionava.


D: Quindi le persone suggeriscono...

R: Involontariamente


D: Non c'è un atteggiamento di proposta del tipo: «Mi viene di farlo così, lo faccio così»?

R: Sì questo capita, capita che lo dicono, certo, ne discutiamo, qualche volta capita che sia giusto, qualche volta no, ma non importa. Per esempio, il finale, quando Giampiero Giglioni[23] fa la parodia di Daniele - perché lì fa la parodia di Daniele - lui disse: «Io vorrei fare la parodia di Daniele, quando lui dice: "Vi annuncio, vi annuncio, vi annuncio"», e lui dice esattamente il rovescio. Io dico: « Sì sì va bene fallo in quel modo»: lui, infatti, sembra che esageri in quel momento, ma va bene.


D: E le scene, le musiche, le azioni che ruolo hanno? A uno sguardo di superficie il Teatro Povero potrebbe sembrare soprattutto un teatro di parola.

R: E' un teatro di parola, ma anche un teatro di azione; e nell'azione io sto molto attento ai volumi, sto molto attento ai vuoti di palcoscenico, sto molto attento a tutto quello che è la costruzione armoniosa di una scena. Se hai notato, per esempio - ti fo' alcuni esempi per farti capire il tipo - quando - parlo della parte della commedia - quando la donna, la Rosa, dice, quando arriva il marito con il garzone, che è venuto il dottore e che gl'ha detto che è di condotta, e dice: « Io che vol di' 'un lo so'?», e il marito gli dice: «Mah... vorrà di' che ha combattuto!»; il garzone che è un po' più sveglio dice: «Ma che combattuto? Vuol dire che è il medico delle nostre famiglie eccetera»: se questo discorso l'avessi rappresentato nel dialogo, con il garzone seduto, la donna seduta, l'altro in piedi, non funzionava secondo me - o meglio nessuno si accorgeva, ma io sì. Invece se la donna, che è il motivo del racconto, resta ferma, se lui che non ha capito se ne va, e il giovane che invece sa se ne va anche lui, ma poi si volta e costringe l'altro a voltarsi, praticamente si compone un triangolo equilatero con la donna al centro dei due personaggi: lei è l'oggetto che ha creato il disagio, c'è la persona che non sa, la persona che sa, lui se ne va, l'altro se ne va, lui dice: «Mah... vorrà di' che ha combattuto!», l'altro: «Ma che combattuto?...», l'altro si volta, la donna no, e gli dice: «Vuol dire che.... etc... capito?», «Mah! Se lo dichi te!», via uno, via l'altro, lei rimane sola. Allora in questa organizzazione di scena, sì il teatro è di parola, ma conta l'azione e deve essere un'azione di questo genere, è come uno sfumare di quei concetti. Perché? Perché da una parte sfuma la condizione della consapevolezza, dall'altra sfuma la condizione che ti illustra qualcosa che non sai, tant'è vero che il consapevole frega tutti, alla fine.


D: Le musiche?

R: Ma guarda, qui, con la musica, fino a due anni fa, c'era Norberto che era un compositore che scriveva le musiche appositamente; poi l'anno scorso decidemmo di non mettere musiche per niente. Quest'anno ce n'è una sola, che è un valzer di Shostakovich,[24]perché mi piaceva. Mi piace, perché questo valzer - che è abusato, devo dire, perché si sente anche nell'areclame[25] del dentifricio, alla radio, da qualsiasi parte -: però questa è una delle tre orchestrazioni, quella meno nota, e quello che mi piace è che è un valzer in tono minore, non è un valzer in tono maggiore, perché il valzer in tono maggiore é allegro, il valzer in tono minore sembra allegro ma è malinconico. Ed è malinconico perché in questo caso questo valzer rappresenta e descrive una scena che non è malinconica, ma comunque dove si intravede un epilogo: lo descrive anche durante lo spettacolo, e lo descrive non certo con malinconia, ma lo descrive con una sorta di, non di entusiasmo, ma di ripensamento di una vita che trascorre, che è passata, e che può anche finire come poi tutte le esperienze di vita.


D: Anche per le musiche quindi, nel corso degli anni c'è stata la volontà di crearle ad hoc?

R: Ma sì: io ho avuto diversi collaboratori che poi sono cambiati, per motivi loro. C'era ad esempio un gruppo, molto bravi, i primi anni, poi altri due musicisti, di Montepulciano tutt'e due.


D: L'uso della musica c'è sempre stato?

R: Sì, però i primi tempi adoperavamo musiche arcinote, un pezzo dei Pink Floyd oppure di altri, oppure musiche degli anni '30, quando dovevamo ironizzare su alcune cose, oppure, ecco, la rumoristica, attraverso la rumoristica di teatro, quella tradizionale. Non sempre devo dire, ecco: dipende. Ora, ultimamente, io sono andato sempre escludendo, sempre di più la parte musicale, mantenendo sempre...non sottolineando mai con la musica, per rendere più percepibile la condizione, diciamo, emotiva da una parte o descrittiva dall'altra, di quello che rappresenta la scena.


D: Nel momento della messinscena, dove tu hai un ruolo registico, cosa accade con il confronto con l'Assemblea?

R: Scompare: lì ci sono gli attori e basta. Posso avere commenti perché magari c'è qualcuno che guarda le prove: «Oh, lo sai che mi è sembrato che quella cosa non funzioni». Io magari ero già convinto che non funzionava, però mi conforta il fatto che qualcuno me lo dica, perché allora vuol dire che devo pensare a un'altra cosa. Lo pensavo anche io, però. Se uno viene qui e mi dice: «Lo sai, ti posso dire una cosa? », «Dimmela!», «Quella roba lì 'un mi garba perchè...», io considero quel tizio o quella tizia come uno del pubblico che mi da un'informazione. É chiaro che non puoi ascoltare tutto quello che ti dicono, tu devi avere una linea tua, devi avere le idee chiare, assolutamente. Ho notato che, una cosa, che - ma questa la dico ora a te, ma non è che... -. Ho notato che nel momento in cui faccio delle prove e metto in scena delle scene, quando comincio a mettere in scena qualcosa che non ho mai cominciato a mettere in scena, funziona molto bene quando a un certo punto, comincio la prova di una scena, vedo che l'idea che avevo funziona, la interrompo a metà, e dico: « Ragazzi fermiamoci qui che da qui in poi non so come andare avanti». Allora questo mette in moto un meccanismo di difesa da parte di chi interpreta perché dice: «Porca miseria, se fin qui funziona perché non dovrebbe funzionare più? ». Allora fino a lì ti danno il massimo e da quel momento in poi nasce qualche altra cosa, perché loro ti suggeriscono involontariamente quello che probabilmente....magari un gesto, magari una parola in più, magari una risposta, un voltar di testa, non lo so te lo dico a caso. Però, credo che la condizione migliore per chi organizza uno spettacolo sia quella di osservare, di stare attenti, sempre attenti continuamente a tutto quello che c'è intorno, anche il rumore di una bicicletta, o di una motocicletta che arriva: non so perché te lo dico, ma te lo dico, perché è importante secondo me.


D: La parola del Teatro Povero non è una parola qualunque: usa una lingua specifica, un dialetto dei contadini toscani...

R: Diciamo un italiano arcaico.


D: Una lingua che rimane comprensibile rispetto all'Italiano di oggi, ma che si porta dietro tutto un mondo, che è quello dei contadini della Toscana. Il Toscano, però, rimane anche nelle parti dello spettacolo dove si parla di attualità. Anche le parti del testo che tu magari hai scritto in italiano una volta in scena si portano dietro una cadenza toscana. Che relazione hai tu con questo uso della lingua?

R: Lo lascio andare. L'unica cosa a cui sto molto attento è una cadenza ritmica che ha una, diciamo, una linea sinusoide che diventa cantilena. Ti faccio un esempio leggendo un pezzo della tua scaletta, il punto 4: «Come nasce l'autodramma del Teatro Povero di Monticchiello?» (n.d.r. Legge dando esempio corretto di lettura). L'errore in cui cadono moltissimo è questo: «Come nasce l'autodramma del Teatro Povero di Monticchiello?» (n.d.r. Rilegge dando esempio della cantilena citata sopra). Succede che le ultime sillabe della parola hanno una forma sinusoide, per cui hanno una caduta nella penultima sillaba e un rialzo di una nota, di un mezzotono, nell'ultima sillaba, è un fatto musicale. Se non riescono a dire correttamente, magari alzando le ultime due sillabe allora non c'è una caduta, si perde il pericolo della cantilena. A questo sto molto attento.


D: C'è dunque un elemento di indicazione sull'attorialità...?

R: Sì certo. L'altra possibilità e l'altro pericolo, è quello che la lettura, e qui ti rifo' l'esempio: «Come nasce l'autodramma del Teatro Povero di Monticchiello?» (n.d.r. . Legge dando esempio corretto di lettura). Qui si può commettere l'errore nell'interrogazione che è un eccesso di interrogazione, ad esempio: «Come nasce l'autodramma del Teatro Povero di Monticchiello?» (n.d.r. Legge dando esempio del possibile errore). A me mi da fastidio. L'interrogazione può essere anche indiretta:«Come nasce l'autodramma del Teatro Povero di Monticchiello?» (n.d.r. Legge dando esempio della interrogazione indiretta), è già un interrogativo perché la costruzione della frase è interrogativa in sé. Ma ce un'altra possibilità di errore: «Come nasce l'autodramma del Teatro Povero di Monticchiello?» (N.D.R. Legge dando esempio del possibile errore): se te mi metti una pausa tra «Come nasce» e il soggetto, già rompi l'equilibrio della frase, quindi costringi lo spettatore a ricordarsi delle prime due parole e lì invece va legato inevitabilmente. Ma lì è un problema di presa di fiato, perché se io dico le prime due parole avendo consumato tutto il fiato nelle ultime due nella parte precedente, io ci casco lì: allora prendo il fiato, e naturalmente non funziona più.


D: Alcuni degli attori hanno esperienze di anni proprio con il Teatro Povero, altri arrivano che è la loro prima volta che vanno in scena. La preparazione avviene mentre si prova?

R: E certo!


D: Ad esempio con la Signora di cui dicevi prima?

R Eh! La mia sta anche lì, nel dirgli: «Stai attenta!». Allora gli ripeto la battuta per come l'ha detta lei in questo caso, e le faccio notare che ha un effetto negativo sul di lei pubblico, per le ragioni che io gli descrivo.


D: Quindi la preparazione attoriale è lì sul palco?

R: Sì certo.


D: Ma non c'è un laboratorio specifico?

R: No, quello è il laboratorio: perché altrimenti dovrebbe essere un laboratorio attoriale sulla lettura, sulla dizione, sulla respirazione, ma allora diventa un'altra cosa. Allora c'è un altro pericolo. C'è il pericolo di chi non è attore, ma vuole fare l'attore allora senti questi tizi o tizie...Nel 1974, nel Convegno sul Teatro Popolare a Montepulciano, dove c'erano i rappresentanti di tutte le esperienze del teatro italiano, mi ricordo che sul palcoscenico del Teatro Poliziano, salì un tizio che faceva il verso a certi attori, e diceva: «Voi venite qui, pensando di essere degli attori, ci parlate dicendo "poh, poh, poh!"» e fece incazzare tutti, ma aveva ragione: perché si sentivano delle voci che non avevano una loro ragion d'essere, che erano assolutamente false. Cioè non c'era più la naturalità: tant'è vero che il grande....il grande....ti potrei citare Edoardo,[26] ti potrei citare nel cinema Mastroianni,[27] oppure altri ecco, diventano grandi nel momento in cui avendo tutte le conoscenze delle tecniche espressive del teatro, le assimilano, le introiettano, le adoperano e le superano, ridiventando quelli che erano all'inizio, quando non avevano niente di tutto questo, ma avevano soltanto la loro capacità istintiva di stare sul palcoscenico: perché questa è fondamentale, perché c'è gente che su un palcoscenico non ci sa stare, mai ci saprà stare, potranno anche fare delle cose ben fatte ma probabilmente saranno fasulle. Ci sono dei personaggi che quando camminano su un palcoscenico attraggono l'attenzione del pubblico e non fanno niente di innaturale: Rino Grappi[28] era uno di questi - l'hai conosciuto?-. Rino Grappi era uno che, se si metteva una giacchetta sulla spalla e entrava in silenzio sul palcoscenico e guardava lontano, già esprimeva quello che non c'era bisogno di esprimere con le parole. Io ho visto Edoardo, in uno dei suoi ultimi spettacoli che era mi pare....non mi ricordo qual'era, uno spettacolo di Scarpetta, in cui lui entrò in scena con una scarpa in mano tenuta per una stringa, cosi' ciondoloni - a parte che era emaciato dalla malattia -: venne in proscenio stette qualche minuto in silenzio con quella scarpa ciondoloni e venne giù il teatro. Impressionante: perché c'aveva tutto, esprimeva la vita, sua, non c'era bisogno di parole, capisci? Poi arriva l'attore, bellino, carino, e lo prenderesti a calci.


D: E tu come tuteli gli attori del Teatro Povero da questa spocchia?

R: Li prendo un po' in giro, o si prendono in giro fra di loro: ma insomma, però, capisci oramai hanno capito che più normali sono e meglio è, non c'è bisogno di esibirsi.


D: E a quelli nuovi questo passa naturalmente? Cosa hai visto tu?

R: Non lo so, non lo so, non ho idea, con i giovani forse è più difficile, non ti so rispondere.


D: Chi sono questi attori che vanno in scena con il Teatro Povero?

R: Persone normali come tutti noi.



D: E i giovani?

R: Ma i giovani non è che siano molto interessati, secondo me, hanno interessi diversi, interessi che non collimano magari con la vicenda del Teatro, particolarmente con questa. Ecco direi che probabilmente sono più attratti da una teatralità, quella di cui parlavamo prima: nel senso, più orientata verso l'esibizione che verso un'espressione più profonda dei sentimenti di una persona. Questo è normale in persone giovani - no? - che magari credono di dimostrare la loro bravura attraverso la ripetizione di esibizioni, inutili poi in fondo; però, ben venga anche questa, se riesce a farli venir fuori.


D: Ma c'erano dei giovani in scena in "Tempi avvelenati"?

R: Sì, c'erano, quattro perlomeno, più due ragazzini; questo dipende dai tempi, dagli impegni di lavoro, da quello che ti ho detto prima, dagli altri interessi. C'è a chi piace la musica, a chi invece il calcio, chi preferisce andare a lavoro in Taverna[29] e guadagna anche qualche soldo, ed è giusto anche questo. Insomma, non si possono fare categorie, non si possono nemmeno fare categorie positive o negative: ecco, la realtà è quella che è.


D: Secondo te il Teatro Povero favorisce l'incontro tra generazioni?

R: In teoria sì...no! In teoria e in pratica lo da, perché se tu hai notato nel momento in cui si ringrazia il pubblico, se io prendo due ragazzine che hanno sette/otto anni per mano e le porto a fare l'inchino al pubblico, un contatto tra generazioni c'è. Perché io sono certamente per loro, giustamente, una persona oramai vecchia, per cui loro vedono me in una maniera diversa, come loro nonno, per esempio, e io vedo loro come possibili mie nipoti: ma lì sopra abbiamo tutti e tre lo stesso ruolo. Quindi nel momento in cui siamo insieme sulle tavole di un palcoscenico, il nostro ruolo di coloro che calpestano il palcoscenico è esattamente uguale, con pesi diversi, ma è esattamente uguale. E sono esattamente uguali le emozioni che proviamo, le timidezze che abbiamo dentro di noi; ma in questi senso sì, perché le età sono completamente differenti e ti dirò: anche nel momento in cui delle persone di età diversa, interpretando un personaggio, lo fanno come lo devono fare, gli altri sono molto contenti di quella esibizione, non è che hanno invidia o altro, magari l'invidia viene fuori. Se uno è fuori può provare un senso di invidia ma se uno è sul palcoscenico assolutamente no, quindi lo favorisce certo, lo favorisce realmente e teoricamente. Che poi questo non accada perché, per i motivi che ti dicevo prima, perché uno è distratto da altre mille cose per cui non sale sul palcoscenico, non fa il salto, o perché non lo vuol fare, o perché... allora questo è un altro discorso: allora resta la teoria dell'incontro ma magari si verifica lavorando, non so, lavorando in un posto di lavoro dove c'è gente che...Io questa mattina ho incontrato un conoscente, un ragazzo di trentadue anni che m'ha raccontato la sua ultima esperienza - lui fa il falegname - che è andato a fare un'esperienza con un signore, un vecchio di 83 anni che è uno scultore di alabastro, è stato due settimane a casa sua, non so esattamente dove se a Volterra o da qualche altra parte, e mi raccontava il piacere che ha provato lavorando gomito a gomito con lui, lavorando, pulendo i blocchi di alabastro per questo signore di 83 anni: con la motosega scortecciava l'alabastro, poi lo passava a lui che lo ripuliva, poi glielo ridava. Quindi dico io, anche lì si verifica un incontro tra generazioni diverse: è il lavoro di bottega che è fondamentale, che magari non c'è più.



D: Fuori dal palcoscenico? La comunità che non sta in scena secondo te come si rapporta con l'evento teatrale?

R: La comunità che non sta in scena continua a non starci, ma allo stesso tempo continua a starci perché è costretta, anche controvoglia talvolta, a subire questa invasione, diciamo così, di giorni e giorni, di lavoro, di parole, di visioni, che può non condividere, o può condividere, o può condividere e poi non condividere, oppure viceversa: io non lo so, però di fatto il clima è quello.


D: Che tipo di reazioni ci sono?

R: Non lo so perché non le vado davvero a chiedere, anche perché poi probabilmente, se andassi a chiederle, io credo o temo, che qualcuno non mi direbbe la verità. È come quando si fanno - mi fanno un po' ridere - quando fanno le trasmissioni prima delle elezioni, chiedendo alla gente per chi hanno votato e allora in base a quell'indicazioni dicono: «Ah quel partito avrà il 48%»,e poi c'ha il 21. Evidentemente la gente non dice la verità: per cui, o non la dice perché non la vuol dire, o non la dice perché cambia idea, o vattelappesca, è inutile andare lì: «Oh te che ne pensi?». Se c'entra nel discorso, se per una qualche ragione dobbiamo parlarne bene, sennò no. Non lo faccio nemmeno con il pubblico che poi magari incontro dopo lo spettacolo, non vado mai a chiedere a nessuno che ne pensa: «Ti è piaciuto? Non ti è piaciuto?»: io rifuggo, anzi me ne vo' in fretta, proprio per questo. Ma non perché uno sia superbo o per altre ragioni, ma perché non voglio ascoltare niente di tutto questo: è chiaro se uno ti ferma per la strada...che voi fa'?


D: La comunità partecipa vedo...

R: Sì, partecipa, con motivazioni diverse, ma certo che partecipa, ma però questo dappertutto: anche quando si fa, quando una Pro-loco fa una grigliata, o vattelappesca, c'è sempre quello che cucinando si arrostisce davanti al braciere insieme alle bistecche. Magari un giorno, due o tre o quindici, e non un mese, ma lo fa.


D: Si parla spesso del Teatro Povero come un Teatro di comunità.

R: Ma non so che vuol dire: se Teatro di comunità vuol dire coloro che stanno soltanto sul palcoscenico allora è un teatro di comunità di un certo tipo; se è di coloro che partecipano comunque direttamente o indirettamente allo spettacolo, come dicevi un attimo fa tu, allora è un tipo di teatro di comunità di un altro tipo; se invece la comunità è quella, comunque, del paese, di tutti i cittadini, anche quelli che ti "infilerebbero" perché odiano l'operazione, allora è un teatro di comunità anche quello, ma di altro tipo. Oppure è un teatro di comunità quello che somma interpreti e pubblico. Per cui, anche quello è un teatro di comunità, perché c'è una relazione fra questi, il pubblico è un coro anche quello, che è muto perché è muto, se non quando esprime un applauso, oppure che è comunque attento: quindi non so dartela una definizione univoca, non lo so.


D: Però la comunità c'è, è lì, anche quella di coloro che ti "infilerebbero" perché porti a Monticchiello circa 6.000 persone in 15 giorni....

R: L'ultima volta che sono andato a San Gimignano, tre anni fa o quattro, - la conosci San Gimignano? - io non ho camminato con i miei piedi, ho camminato sollevato da branchi di giapponesi che guardavano le vetrine del cuoio e che però non guardavano nient'altro. Io, e non solo io, anche chi era con me, abbiamo camminato sollevati. Ecco anche quella è una comunità, anche i Sangimignanesi sopportavano la fiumana di gente che attraversava il paese.


D: Quindi c'è una parte dei cittadini di Monticchiello che continuano a proporre lo spettacolo, altri che invece non vorrebbero?

R: Non è nemmeno che non vorrebbero, non ne capiscono probabilmente, non ne sentono il bisogno, perché si crea anche un'altra realtà complicata: quella che un'iniziativa come questa non è fine a stessa, ma funziona come supporto di un aspetto della comunità civile, carente di tutta una serie di servizi, che sono il risultato di un decadimento della Nazione. Ecco, per cui adesso, io ti faccio un esempio paradossale, ma comprensibile: immaginiamo che, per una ragione qualsiasi, la vicenda del Teatro Povero riuscisse a raccogliere tanti milioni di euro da poter costruire un ospedale, una casa di risposo, un collegio, una scuola pubblica a costo zero per tutti coloro che sono i cittadini, una ferrovia che collega il paese con tutt'Italia, un eliporto. Finito il Teatro? Tutti questi servizi eccelsi, dove finiscono? Finiscono. Ma finisce anche la consegna del medicinale alla vecchina che è malata di vattelappesca, perché non c'è la farmacia qui, e se non c'è il teatro che fa da tramite, il farmacista a portargli la medicina qui non ci viene. Viene se c'è qualcuno che gli dice, portami trenta ricette: e allora sì, ma, sennò, no. Allora il concetto di comunità è un concetto molto ambiguo in questo senso, l'utilità di un'operazione è molto ambigua in questo senso, perché.....perché è così, voglio dire: se Pienza non avesse avuto Pio II, se c'era un altro, oppure se rimaneva “Corsignano dei ladri”[30] come veniva chiamato allora, probabilmente tutte le utilità che ci sono oggi non ci sarebbero. Quindi tutto dipende da un Ente, la fortuna del caso che ti ho descritto sopra, è che Pio II è crepato ed era Papa: quella è la fortuna perché se era ancora vivo forse no, ci voleva, che ne so, un attore che però poi dopo scompare, e allora il Pio II non conta più niente.


D: Leggendo saggi sul Teatro Povero, molti dicono che nasce rispondendo alla voglia di non essere isolati oppure rispondendo alla voglia di non essere assorbiti nella società globale.

R: Queste sono tutte necessità che ci sono indubbiamente, che sono probabilmente patrimonio di chiunque, non è un eccezione.


D: E dunque, a che necessità risponde oggi il Teatro Povero? Si può dire che ha una utilità sociale?

R: Sì che ce l'ha, quello che ti dicevo prima. Intanto, sotto più aspetti c'è l'ha: uno perché fornisce perlomeno alcuni piccoli servizi che ti ho detto, col Granaio[31], questo è sicuramente un punto importante; c'è l'ha perché fa confluire una quantità di persone disponibili e disposte a spendere una quantità se pur minima di soldi, che rimangono in Paese a vantaggio di qualcuno che non so descriverti: ma per esempio chi affitta le camere, chi vende i panini, chi vende il caffè eccetera, perché anche questo è sicuramente utile. Lo fa perché continua - e quello non si perderà sicuramente perché ormai l'ha data - a dare una fisionomia e un carattere e una identità a una comunità, una piccolissima comunità, che la si riconosce per questo, perché se vai a Canicattì o vai a Bolzano, «Ah dove fanno il teatro!». Poi che la persona la conosca, non la conosca, che ne ha sentito dire, che la condivida, che non la condivida, che ci vada o non ci vada, però è comunque una restituzione di un'identità a un piccolo borgo, che comunque l'aveva perduta perché non era più un borgo agricolo. Perché poi l'agricoltura oggi, alla fine, è in mano a tre, quattro persone che hanno due, tre, quattromila ettari di terra, che non sono certo il carattere di una comunità, sicuramente no; perché sono più riconoscibili i pastori sardi, che vennero qui con le loro migliaia di pecore e che già, anche loro, cominciano a scomparire. Per cui, non è nemmeno la comunità del turista che viene qui e compra la casa, la casetta e poi ci sta tre giorni, cinque giorni, otto giorni: a me non mi interessa, che vengano e arrivederci. Ma non è comunità la massa di turisti che arrivano e poi se ne vanno nell'arco di due ore, perché come t'ho detto a me cittadino non mi interessa, va bene d'accordo, ma non è quello il concetto. E' tutto alterato, il concetto di comunità così: io preferisco paradossalmente la comunità del vuoto, io preferisco un borgo completamente svuotato, dove l'unica comunità è quella degli edifici che non sono più abitati, e che restano completamente vuoti, che magari crollano: ma il concetto di comunità lì è fortissimo, perché è un concetto che parla di una storia che non c'è più, che si è conclusa, quella sì che è un concetto di comunità. È un paradosso? Certo che è un paradosso, dal punto di vista dell'idea di vita, ma se guardiamo il concetto di vita, che è comunque un percorso che ha un inizio e una fine, è l'epilogo logico di questo.

D: E che effetto ha il Teatro Povero sulle persone, sul loro carattere, sulla loro attitudine, sulle loro abitudine?

R: Chiedilo a loro, non a me, perché non lo so. Certamente però un influenza c'è, ce l'ha, ce l'ha avuta, io lo riscontro sai quando? Quando al termine di uno spettacolo o di un periodo di repliche, nelle chiacchiere che facciamo tutti i giorni ogni tanto qualcuno risponde con una battuta del testo, perché si addice: quello significa che comunque c'è un retroterra di pensieri, non di abitudini, ma di pensieri che fanno parte poi della vita quotidiana, ecco, anche dell'ironia, praticamente è questo.


D: Ultima domanda. A quale orizzonte guarda il Teatro Povero di Monticchiello? Ci sono altri orizzonti da conquistare e se ci sono quali?

R: Io ti avevo detto fin dalla prima volta che ci incontrammo, codesto orizzonte immaginalo te. Non ti so rispondere se non così. Non lo so. Però appena te lo immagini vieni e dimmelo.

NOTE:

[1] Mario Guidotti, (Montepulciano, 1923 – Roma, 2011) giornalista, saggista italiano, autore dei testi teatrali del Tetro Povero di Monticchiello dal 1969 al 1980.

[2] A Monticchiello, nell'Aprile del 1944, si svolse una battaglia in cui un gruppo di settanta partigiani respinse e mise in fuga 450 militi della Guardia Repubblicana costituita dopo l'8 settembre 1943.

[3] Walter Ottaviani, comandante partigiano.

[4] Cittadino di Pienza, cittadina a pochi chilometri da Monticchiello e di cui il borgo è frazione.

[5] Indro Alessandro Raffaello Schizogene Montanelli (Fucecchio,1909 –Milano,2001 ) giornalista,saggista e commediografo italiano.

[6] Lo spettacolo del Teatro Povero viene solitamente messo in scena tra la fine di Luglio e inizio Agosto di ogni anno.

[7] Carlo Cassola (Roma1917–Montecarlo,1987) scrittore e saggista italiano.

[8] Aldo Nisi, presidente storico del Teatro Povero di Monticchiello.

[9] Giorgio Strehler, (Trieste,1921 – Lugano,1997) regista teatrale italiano.

[10] Jacob Levi Moreno, (Bucarest,1889 – Beacon,1974) psichiatra statunitense, ideatore dello psicodramma.

[11] Il Bruscello è una forma arcaica di teatro popolare toscano, profondamente legato al mondo contadino, annualmente messo in scena a Montepulciano (SI).

[12] Verdiani-Baldi, Arnaldo, "I castelli del Val d'Orcia e la Repubblica di Siena", Edizioni Cantagalli. 1992

[13] Unità organizzativa locale del Partito Comunista Italiano.

[14] Arnaldo Della Giovampaola, regista del Teatro Povero di Monticchiello fino al 198.

[15] "Tempi veleniferi", autodramma del Teatro Povero di Monticchiello, messo in scena tra il 25 Luglio e il 14 Agosto 2014.

[16] Dal proverbio "l'acqua cheta rovina i ponti”: ad indicare che l'erosione che l'acqua esercita alla base dei piloni di sostegno dei ponti è più marcata nei casi in cui la corrente si presenta modesta, ma esercita un'azione ininterrotta. Essere una "acqua cheta" si riferisce ad una persona in apparenza modesta e tranquilla che poi si rivela capace di azioni impensate che creano difficoltà, o che sono totalmente distruttive.

[17] Il Teatrino della Compagnia del Teatro Povero, si trova a Monticchiello e durante l'inverno, oltre a varie manifestazioni, ospita lo spettacolo messa in scena dalla Compagnia nel periodo natalizio.

[18] Il grano velenifero è un tipo di grano a cui viene aggiunto del veleno e utilizzato in campagna per uccidere i topi. E' un elemento importante della storia raccontata nello spettacolo 2014 del Teatro Povero di Monticchiello.

[19] Paolo Del Ciondolo, uno degli attori storici della Compagnia del Teatro Povero di Monticchiello

[20] Arturo Vignai, attore storico della Compagnia del Teatro Povero di Monticchiello

[21] Nel sistema agricolo contadino della mezzadria, con un'impostazione familiare di tipo patriarcale, il capoccia era il capofamiglia, solitamente il più anziano, ruolo di solito affidato al più grande tra i figli maschi del precedente capoccia.

[22] Chiara Del Ciondolo, membro del gruppo ristretto.

[23] Giampiero Giglioni, attore, membro del gruppo ristretto del Teatro Povero di Monticchiello.

[24] Dmirti Shostakovich, 1906-1975, compositore e pianista Russo

[25] Spot pubblicitario

[26] Edorado De Filippo, (Napoli, 1900 – Roma,1984), drammaturgo, attore teatrale, attore cinematografico, registra teatrale e cinematografico, sceggiatore e poeta italiano.

[27] Marcello Matroianni,(Fontana Liri, 1924- Parigi, 1996), famoso attore italiano.

[28] Rino Grappi, attore storico del Teatro Povero di Monticchiello, morto da alcuni anni.

[29] La Taverna del Bronzone, spazio del Teatro Povero di Monticchiello in cui è possibile mangiare durante il periodo delle repliche dell'autodramma.

[30] Pienza, cittadina in Provincia di Siena, in Toscana, fu fondata da Papa Pio II, al secolo Enea Silvio Piccolomini, che trasformò il borgo fortificato Corsignano, in una città Rinascimentale, la "città ideale", in soli tre anni tra il 1459 e il 1462. Oggi meta di numerosi turisti.

[31] Il Granaio è unaltro locale del Teatro Povero di Monticchiello in cui è stato allestito un centro informazioni e un piccolo spaccio; è luogo di incontro per le attività della comunità e sede del TePoTraTos, il museo del Teatro Popolare Tradizionale Toscano.

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