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Gianluca Barbadori / Teatro per la comunità del terzo millennio

"Il teatro viene utilizzato come mezzo per fare delle ricerche, delle riflessioni con il pubblico, per fare domande, e possibilmente generare trasformazioni.

E' un modo per fare politica."

Intervista a Gianluca Barbadori di Ponte tra Culture (da Ancona al mondo)

13 Luglio 2015, Ancona in Italia.


PER SAPERE DI PIU' SU Gianluca Barbadori


D: Chi é Gianluca Barbadori?

R: Personalmente mi definisco come una persona che ha preso posizione: nel senso che per scelta ho deciso di lavorare non solamente con professionisti, ma moltissimo nella formazione e nel teatro sociale, come percorso di crescita. Da quando è arrivato Grotowsky, nella seconda metà del Novecento, il rapporto con lo spettatore è cambiato: prima lo spettatore assisteva a qualcosa che avveniva in scena per convenzione, invece con lui è diventato testimone di un evento reale. E nel corso del tempo, ho capito come Grotowsky abbia portato me, come tanti altri, a voler fare un lavoro sull'uomo, sulla persona. E quando tu lavori in teatro nel terzo millennio e non vuoi più lavorare secondo convenzioni o schemi tradizionali, ti rendi conto che la tua ricerca va ben oltre, se ti consideri una persona impegnata da un punto di vista politico e sociale.

Il teatro viene utilizzato come mezzo per fare delle ricerche, delle riflessioni con il pubblico, per fare domande, e possibilmente generare trasformazioni. E' un modo per fare politica, se vuoi.

Il lavoro umano mi ha portato a coinvolgermi non solo con gli attori e ad affrontare certe tematiche, che io ritengo, magari, importanti nel Paese in cui sto lavorando; lo capisco da come ne parlano le persone, o sono quelle cose che appaiono molto presenti nella dimensione sociale. Oppure mi ha portato a operare direttamente con persone in situazioni particolari. Non solo quelle che vivono la marginalità ma anche quelle che sono socialmente divise. Mi considero una persona attiva nell'uso quotidiano del teatro come strumento di azione del terzo millennio. Il teatro è un luogo in cui tu puoi far entrare tutta una serie di piattaforme artistiche, è un contenitore: può entrare la musica, può entrare il canto, la scrittura, i video, si può lavorare in tutti i modi per utilizzare queste arti. Cerco di lavorare con le comunità e con i gruppi partendo da chi sono loro, da cosa sanno fare, da come vogliono farlo e cerco di far confluire nel teatro quelli che sono i modi più organici e naturali di espressione. Addirittura possono essere fotografie, piuttosto che disegni, oppure se hanno una passione, vedo di sviluppare quello per cui loro hanno un entusiasmo particolare. Il teatro diventa il contenitore di tutto questo. Non sempre, poi, quello che loro fanno, esprimendosi nel loro modo preferito, viene utilizzato in quello che diventa lo spettacolo, o la dimostrazione di lavoro, o quello che sia. Però è un punto di partenza importante per farli sentire più comodi. E parallelamente a questo propongo loro tutto un percorso legato ai giochi teatrali, a percorsi di autostima, di conoscenza, di sviluppo della percezione, della fiducia, quelle cose che in parte richiamano il lavoro di Augusto Boal, ma non solo. Non faccio Teatro dell'Oppresso: lo lascio fare a chi sa farlo fare, perchè è molto pericoloso secondo me farlo male. Quello che faccio io è ciò che sento come necessario per chi fa arte nel terzo millennio: abbiamo la responsabilità di usare l'arte come strumento per generare domande, fondamentalmente.

Sento che quando si fa teatro o si fa arte bisogna agire in modo estremamente esigente, e con un'enorme disciplina: non si gioca, non lo si fa così alla «volemose bene», bisogna avere delle regole molto precise. Il gruppo impara a lavorare nel rispetto delle regole uguali per tutti: ovviamente, poi, le situazioni sono particolari e permetti alle persone di avvicinarsi piano piano, anche in base ai loro codici e alle loro difficoltà, al lavoro di gruppo, però fermo restando che ci sono delle regole molto chiare. E il livello di esigenza è altissimo: anche se una persona non ha mai fatto teatro, ci lavoro come fosse un attore.


D: Con quali gruppi di persone lavori?

R: Negli anni ho lavorato con gruppi di quartieri marginali di Buenos Aires in Argentina, o di Ibrité vicino a Belo Horizonte in Brasile e di Soacha in Colombia. Sono adolescenti e adulti, dipende dalle situazioni, però diciamo che nella marginalità mi è capitato di lavorare soprattutto con gli adolescenti, che vanno dai 12 ai 20 anni, massimo 21, 22. Ho poi lavorato con operai per la Fincantieri ad Ancona, con non-vedenti, con gruppi di donne su questioni legate alla violenza di genere ma non solo, e con anziani. E ancora con studenti delle scuole superiori Italiane, private, all'estero in diversi Paesi: in Iran a Teheran, a Buenos Aires e Rosario, piuttosto che a Montevideo e a Belo Horizonte, a Bogotà dove c'è la scuola italiana più incredibile che io abbia visto negli anni. In posti come questo invece del disagio economico, la cosa interessante è che ti trovi di fronte persone che vivono in una ricchezza assolutamente eccessiva e che hanno altri tipi di disfunzioni magari di tipo affettivo, piuttosto che personali. E la cosa interessante è quando si riescono a fare dei progetti in cui si mettono insieme ragazzi che vengono da quartieri marginali con ragazzi che invece vivono nell'agiatezza più assoluta.


D: E tu a tutto questo come ci sei arrivato?

R: Dopo la formazione a Pontedera in Toscana, sono arrivato nel 1994 qui ad Ancona iniziando a gestire delle attività, da solo; poi nel 1996 ho deciso di tornare in Argentina: lì per molti anni ho organizzato un festival di residenze di artisti che venivano dall'Italia, in diverse città, come Rosario, Buenos Aires, Bahia Blanca, Mendoza ma anche nelle cittadine più isolate e sperdute. Facevamo dei laboratori gratuiti per le persone e per gli artisti locali, che spesso vivevano in una condizione di isolamento culturale potentissimo. Quindi gli artisti italiani venivano ospitati, vivevano lì una, due settimane, a volte tre settimane e si sviluppava questo lavoro che diventava anche comunitario, in molti casi. In particolare, avevo invitato Marco di Stefano con Brigitte Christensen, che si occupano di teatro comunitario da tanti anni ad Amandola nelle Marche e lì ho toccato con mano la potenza del lavoro degli artisti nelle comunità: quello che succede alle singole persone comuni, oltre a chi vuole fare arte e teatro che magari da questa esperienza prende coraggio e parte e lo fa come scelta di vita; o chi invece no, ma rimette in moto un'energia sopita da tempo e incomincia a pensare e credere che certe cose siano possibili anche nel suo ambiente, mentre fino a quel momento aveva vissuto come in depressione, e così via. Da lì ho iniziato ad occuparmi sempre di più di quelli che possono essere i processi di azione dell'arte nelle comunità e nei gruppi sociali. E ho conosciuto Javier Zanetti, calciatore dell'Inter e della nazionale argentina che aveva e ha ancora oggi questa fondazione, Fundación Pupi, che si occupa di bambini, adolescenti e famiglie che vivono in condizioni di marginalità, gli ho proposto di fare questo laboratorio di teatro ed è partito. Ho iniziato nel 2005 in un quartiere del Sud di Buenos Aires in Argentina. Parallelamente in Italia avevo iniziato un progetto con Amnesty International legato ad una campagna contro la violenza sulle donne e quindi tutto è un po' coinciso come periodo storico negli anni 2004 e 2005. Poi già lavoravo da tempo con gli adolescenti. E da cosa è nata cosa. Ho poi conosciuto a Buenos Aires il gruppo di teatro Catalina Sur, una grande esperienza di teatro comunitario che io ho frequentato. E insomma è tutto nato da una serie di incontri. Con la Fundación Pupi, la proposta l'ho fatta io ed è venuto fuori il progetto che mi ha cambiato la vita e che mi ha dato la forza di lavorare in tanti contesti differenti.


D: Che definizione daresti della parola comunità?

R: La comunità è una dimensione di energia peculiare: ossia ogni comunità ha delle caratteristiche assolutamente proprie. La comunità è un luogo, un pianeta in cui tu puoi solo entrare chiedendo permesso e mettendoti in ascolto prima di poter fare qualsiasi cosa.


D: E il teatro di comunità?

R: Il teatro di comunità è la dimensione in cui questa comunità dà voce a quelle che sono le sue priorità di tipo sociale, civile e identitario: possono essere maggiormente collegate ad una quotidianità più universale delle persone, al loro Paese, alla loro storia, piuttosto che connesse a degli argomenti che loro sentono come importanti. Ma in generale, il novanta per cento delle volte, hanno bisogno di esprimere la loro identità e delle necessità primarie legate alla loro storia o a tutto quello che è successo negli anni e nel presente in cui vivono.


D: Che ruolo ha il conduttore di teatro in generale e poi rispetto a queste tre parole potere, potenziale e potenziamento?

R: Il conduttore di teatro non deve avere un ruolo di potere, deve avere un ruolo definito. Il potere, secondo me, non appartiene a chi vuole fare teatro sociale. E' una questione di ruoli: da una parte deve essere molto chiaro qual'è il tuo ruolo per loro, per il gruppo, devi godere della loro fiducia e stima, che ovviamente va conquistata giorno dopo giorno con le azioni, più che con le parole. Puoi parlare dopo che hai agito o mentre dici sennò diventi un quaquaraquà e lo capiscono subito; allo stesso tempo devi dare a loro dei ruoli. Diciamo che la costruzione va fatta condividendo delle responsabilità: invece di potere userei proprio questa parola. Il potere è nemico della costruzione di teatro comunitario: nel momento in cui chiunque acquisisce un ruolo di potere la situazione non è più comunitaria. Il potenziamento è l'obiettivo: quello di potenziare le singole capacità delle persone attraverso l'azione comune; quindi potenziare la comunità, ma attraverso la crescita dei singoli individui: si cresce individualmente e si cresce collettivamente. Potenziare è l'obiettivo di tutto questo. Il potenziale è quello che c'è alla base della comunità stessa, quello che tu vedi, annusi e percepisci, quindi quello che devi potenziare. Quindi si deve potenziare il potenziale, quello che con gli anni come conduttore incominci a percepire in modo sempre più netto e più chiaro. L'individuazione del potenziale dipende da tre fattori: da una parte da cose evidenti, dall'altra dall'esperienza che puoi aver di percepire cose più o meno latenti, e il terzo da quanto sei in grado di scoprire ciò che all'inizio non ti aspetti e non percepisci ma che compare e quindi che ti può sorprendere e in alcuni casi potrebbe sviarti. E invece no: va conglobato e messo in armonia con il resto.


D: C'è qualche progetto in particolare che mi potresti raccontare nel quale hai usato il teatro in ambito comunitario?

R: Sono molto legato a tutti i progetti che ho fatto. Anche il lavoro fatto con la comunità cinese di Prato, per dire: è stato probabilmente il più duro della mia vita, in assoluto, per differenze di codici, di cultura, è stato l'unico gruppo della mia vita in cui mi sono sentito dire dai ragazzi del laboratorio: «Visto le ore in cui stiamo provando, ci piacerebbe sapere se possiamo essere pagati». Perché i cinesi - come mi diceva un ragazzo di diciotto anni, cinese, cresciuto in Italia - «pensano solo a tre cose: soldi, soldi, soldi.» E finché non ci sei dentro non lo capisci. Da una parte vogliono la mano dura e dall'altra si offendono facilmente per la questione dei differenti codici culturali. E' stato un progetto difficilissimo, ma davvero affascinante.


D: Come è nato questo progetto?

R: E' nato dal Comune di Prato, dal Metastasio Teatro Stabile della Toscana e dal Festival DivinaMente curato da Pamela Villoresi. Abbiamo portato lo spettacolo a New York e a Roma, e a Prato in cinese con sopratitoli in italiano. Il gruppo era formato da cinesi e da italiani che parlavano cinese: dodici ragazzi in tutto, quattro professionisti e il resto erano amatoriali che hanno lavorato più di quello che possano normalmente fare i professionisti. E' stata una situazione limite in tutti i sensi.


D: Quanto tempo avete avuto a disposizione?

R: Abbiamo fatto un mese di laboratorio: siamo partiti da trentadue persone e ne abbiamo selezionate dodici. Poi, in tre mesi, abbiamo riscritto e tradotto tutto il testo, lo abbiamo imparato a memoria e abbiamo montato lo spettacolo e presentato a Roma. E' stato un delirio. La situazione limite ha complicato non poco quelle che potevano essere le differenze.


D: Eri tu da solo o con altri conduttori?

R: Ero io da solo a coordinare e avevo Olivia Kwong che faceva la coreografa, ma non era assistente alla regia, solo responsabile delle coreografie legate alla tradizione cinese. Te ne parlo come esperienza limite, complicatissima.


D: Rispetto alle criticità che hai avuto con il gruppo, cosa ha funzionato e cosa no?

R: In tutta onestà ha funzionato il fatto che saremmo andati a New York: questo sicuramente, con i ragazzi cinesi. L'hanno vista come un'opportunità pratica e materiale, la realizzazione di un sogno. Questo però non ha impedito ad alcuni di loro, comunque, in certi momenti, di percepire il disagio e di voler abbandonare il progetto. La questione è lavorare usando carota e bastone anche perché il livello di esigenza era molto alto. Era una produzione che voleva essere professionale, con pochissimo tempo a disposizione, coinvolgendo non professionisti; da una parte questo, e dall'altra c'era l'esigenza di mantenere il timone a dritta sul senso e sulla necessità di fare bene quel lavoro per la sua importanza a livello dell'integrazione. Era necessario non perdere mai di vista il motivo per cui avevamo iniziato questa cosa, perché quando si innescano certi meccanismi di esigenze produttive, le persone tendono a dimenticare il punto di partenza che invece va tenuto ben presente. Ma questo riguarda in generale anche situazioni più positive, dove ci sono comunque dei momenti in cui l'energia cambia e devi tenerla su: questo accade sempre in quello che si fa.


D: Che ricadute pensi che abbia avuto questo progetto nella quotidianità?

R: Le ricadute sono state che sicuramente i ragazzi si sono resi conto che si possono fidare delle persone italiane e viceversa cinesi. Per loro è stata un'esperienza indimenticabile: molti di loro hanno continuato a fare un laboratorio che abbiamo portato avanti per un altro anno e mezzo, scrivendo un testo tutti insieme, chiedendo in particolare a una signora cinese e a un professore italiano di scrivere a quattro mani un testo, su cui poi sono intervenuti tutti; un testo riguardante la realtà pratese della loro vita. Sono venute anche persone di altri Paesi al laboratorio, perché hanno visto lì la possibilità di conoscere persone cinesi: un ragazzo ghanese, un senegalese. E quindi abbiamo continuato a fare questa esperienza che ha affrontato le difficoltà dell'integrazione a Prato e le biografie delle persone, e ha toccato con mano le realtà che loro vivevano. C'è dunque stata una ricaduta molto interessante. Poi, purtroppo, hanno tagliato i fondi: c'erano altri interessi e quindi adesso siamo in attesa, anche se avremmo voglia di continuare e di trovare un modo per finanziare un minimo l'attività. Le persone non pagano, ma comunque per me o per chiunque segua il lavoro ci vuole un minimo di copertura delle spese. Va be' che il progetto è sospeso, ma c'è un gruppo forte che ha voglia di tenerlo vivo. Stiamo continuando a vederci ogni tanto per capire cosa si sta sviluppando, abbiamo un gruppo su Facebook, siamo in contatto: anche se poi ognuno continua con la sua vita.


D: Hai avuto anche modo di verificare se ci sono state delle ricadute più ampiamente sulla comunità, anche su coloro che non hanno partecipato direttamente al progetto?

R: Sì certamente, in particolare dopo il secondo spettacolo, nato da questo anno e mezzo di lavoro, e che è stata una sorta di ripresa del laboratorio precedente e gli ha dato un senso più chiaro. Sono venute a vederlo non solo le persone più del settore e con interesse specifico, ma anche un pubblico più ampio, anche chi non avrebbe mai immaginato di vedere dei cinesi in scena parlare da pratesi ovviamente con l'accento cinese, ma facendo la parte degli italiani. Abbiamo proprio scambiato i ruoli, per cui è diventata una sorta di situazione specchio di teatro nel teatro. Molte domande e molte questioni sono emerse, c'è stato un dibattito a fine spettacolo, abbiamo mantenuto viva la questione dell'integrazione; in molti, riferendosi ai partecipanti cinesi, hanno confessato di aver avuto per la prima volta la sensazione di avere di fronte delle persone che erano desiderose di incontrare il diverso da sé e non che fossero solamente chiuse nella loro diversità e nel conflitto. Da questo punto di vista, almeno per una parte della comunità, l'obiettivo è stato raggiunto: ognuno di loro poi avrà portato avanti questa esperienza, chi nel lavoro, chi a scuola, chi a casa, chi per strada.


D: Il rapporto con le istituzioni come è stato? Non solo in questo progetto ma anche in generale, in altri tipi di interventi.

R: Nei progetti della Comunità Europea, soprattutto quelli che riguardano i contesti marginali, i rapporti sono di solito molto buoni, o anche quando lavori con organizzazioni come l'Associazione Italiana Ciechi, con gli operai, piuttosto che con la società civile: si riesce a lavorare molto bene e i progetti sono già molto chiari fin dal punto di partenza. Per questo progetto, in particolare, invece è stato complicato anche con le Istituzioni: il Comune di Prato si è molto impegnato a risolvere tutta una serie di questioni complicate per poterlo fare, e gli sono molto grato; mentre con il Metastasio è stato più difficile, molta disponibilità iniziale ma è stato poi più complesso dopo. Il Festival DivinaMente di Pamela Villoresi è stato il punto fermo di tutto, e quindi molto bene. Però ti dico questo è stato il progetto più complicato che abbia mai fatto in assoluto.


D: Parlando in generale, adesso, che ricadute ha, secondo te, un progetto di teatro di comunità e che ruolo hanno le istituzioni in progetti di questo tipo?

R: Rispetto al teatro di comunità la continuità è fondamentale. A livello economico, se il progetto continua negli anni, e se chi ha iniziato a parteciparvi, diventa a sua volta un moltiplicatore e referente, quindi insegnante per i nuovi e i più giovani, sicuramente questa è una svolta economica per queste persone. Però ci deve essere molta continuità, il progetto deve già iniziare con l'idea di durare negli anni, con la costruzione di opportunità reali. In questo hanno un ruolo centrale le Istituzioni: di solito sono Fondazioni o Ong che permettono questo, istituzioni come Comuni, Governi, Stati, Regioni, Province, già sono molto più rari da questo punto di vista. Naturalmente se parti dall'inizio di un mandato politico-amministrativo è più facile costruire le basi, ma di solito non faccio molto affidamento sulle istituzioni pubbliche: sono più le Ong e le Fondazioni, da quello che ho visto, che creano progetti, cercano di portarli avanti con le loro forze, facendo da filtro tra comunità e la realtà istituzionale.


D: Secondo te, quale futuro, quale orizzonte possono avere i progetti di teatro di comunità?

R: Credo che siano forse l'unica vera grande azione visibile e condivisibile di pace, di integrazione, di desiderio di crescita e soprattutto di voler fare delle cose insieme; non in modo esclusivamente giocoso, ma prendendosi delle responsabilità con gli altri, anche a livello di tematiche che si scelgono, con un'azione tout court, che coinvolge la persona e la comunità in modo globale, e potente, e quotidiano: quindi cambiano sicuramente la percezione. Il teatro comunitario, quello che ha di meraviglioso è che è aperto a tutti quelli che vogliono, in qualsiasi momento, entrare a farne parte.


D: E perché il teatro e non qualcos'altro?

R: Perché è il contenitore più ampio: puoi dargli qualsiasi tipo di forma, non sei vincolato. Puoi farlo veramente dove ti pare, come vuoi, dove vuoi, in qualsiasi spazio, puoi farlo durare quanto vuoi, lo puoi fare itinerante, con dimensioni diverse, con forme espressive diverse, con forme di coinvolgimento del pubblico diverse, puoi farlo tutte le volte che vuoi, puoi decidere tu quando farlo e ti garantisce tutta una serie di elementi: flessibilità, completezza, eterogeneità formale, temporale, fisica, spaziale e di codici.

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